Leonardo SCIASCIA
Seguo il lavoro di Tranchino da più di vent’ anni: da quando, non so più sul qual giornale e per qual mostra, ho visto la riproduzione di un suo quadro e, capitando a Siracusa, in compagnia di Dominique Fernandez, che allora passava le estati in una casetta sul mare di Pachino, sono andato nel suo studio. Lavoro, dico, per improprio – in questo caso – modo di dire: Tranchino, stendhalianamente e savinianamente, non lavora (e ricordo una memorabile pagina di Savinio, di introduzione a una cartella di litografie di Fabrizio Clerici), si diletta: dipinge cioè con diletto, con piacere, come in una prolungata vacanza — tanto prolungata –, continua ed intensa da assorbire interamente la sua vita.
E forse appunto da ciò nasce l’attenzione, il sodalizio, I’amicizia che ci lega: dal reciproco riconoscerci dilettanti proprio nel senso di cui discorreva Savinio per Clerici. E non che il dilettarsi escluda i «latinucci», la ricerca, I’inquietudine, il travaglio, il guardarsi dentro a volte con sgomento e il guardar fuori con prensile attenzione e a volte avidamente: ma in una sfera, sempre, di «divertimento», di gioco esistenziale. Un gioco in cui ha gran parte la memoria, il suo trasmutarsi o mutarsi in mito, favola ad avvertimento del presente; del destino, anche: e così trascorrendo le immagini, le metafore, gli emblemi da Omero a Conrad, con alquante postille borgesiane.
Nato a Siracusa nel 1938, Tranchino non se ne è mai allontanato se non per periodi brevissimi a presenziare a mostre proprie o per vedere quelle di altri pittori a lui congeniali, in Italia e fuori. Il suo più lungo soggiorno credo sia stato a Parigi, per apprendervi la tecnica dell’acquaforte, mezzo di espressione che sempre più l’attrae (ed è pure da notare, in questi ultimi anni un suo più intenso disegnare, una più forte carica di disegno nella sua pittura).
Otto Weininger diceva che a Siracusa si può nascere o morire, non vivere. Pensava, forse, a Platen che è andato a morirvi. Ma Tranchino non solo serenamente vi vive, ma ne rivive i miti lontani (che a volte appaiono come «citazioni» di De Chirico, di Savinio) e quelli dell’infanzia: tra il mare e la campagna, nei dissepolti splendori di una civiltà impareggiabile.
Claude AMBROISE
L’ISOLA NON LASCIATA
A che pro allontanarsi, anche se delle navi, da molto, sono approdate alla banchina, forse ad invitare al viaggio. La Sicilia, può farsi insopportabile. È tanto vero che di essa, in un tempo non lontano, era impresso nella mente e nel corpo del pittore Tranchino, il terremoto: come un fantasma richteriano sulle tele dell’atelier della Mastra Rua siracusana. Non che, una volta distrutto il mondo naturale o architettonico insieme alla legge ortogonale di gravi, scandagliasse il caos; ma le forme della sua pittura sembravano nascere dalla scossa ctonia, nel sospeso stare in bilico di balconate, muri del giardino, palme nane, colonne mozze, uomo tormentato intorno a un libro, chiazze interstiziali di colori, la casa, approdi…
Dentro a ogni siciliano sta l’esperienza del terremoto, anche se solo atavica. Come nei libri di Enzo Consolo, dove si narra, metaforicamente, la catastrofe. Se, in origine, non fosse avvenuta la catastrofe della lingua, non leggeremmo Il sorriso dell’ignoto marinaio e altri racconti. Qualcosa di analogo è successo a Tranchino relativamente alla pittura, per cui le forze telluriche l’hanno liberato,davvero surrealmente, dall’armonia prestabilita del mondo.
Dopo il terremoto si è soliti ricostruire da capo, ma molti quadri del pittore di Siracusa rifiutano questo lavoro di Sisifo; essi propongono un mondo diverso da quello di prima,per cui sono state reinventate la relazione tra i colori e gli oggetti, il rapporto degli oggetti tra loro, la configurazione dello spazio… Così era decisamente nelle opere di pochi anni fa.
Oggi lo spettatore continua a sentirsi provocato dall’esperienza vissuta del terremoto. Non verrà ricuperata la barriera del naturalismo: la dissociazione lega forme e colori, la luce si origina dal meridione, ma cambia la tela se sopra ci batte un raggio algido di sole e rivela un recesso del vegetale; gli oggetti, anche grandi, provengono spesso dai ricuperati giocattoli della infanzia. Senonchè i significanti sono stati rigorosamente individuati, non giustapposti, anzi combinati tra loro grazie agli spazi interstiziali, come in un racconto stringato. Sono i significanti di Tranchino, i significanti del viaggio: del viaggiatore sognante che non lascia l’isola e dipinge mondo e oggetti, i quali rimandano a lui, che lo dicono e dicono chi li guarda e ne assume il fascino.
Come i souliers di Van Gogh erano emblemi del pittore olandese, le navi, la macchina, la coda di un aereo… e non meno i colori usati, indicano l’uomo Tranchino. La sua nave è un oggetto catturato nelle braccia del porto, la sua macchina un oggetto catturante che nel parabrezza accerchia una ellisse di paesaggio, il cagnolino interroga il quadro e salta dentro, le colonne e le piante stanno lì, le balaustre tonde fanno angolo… Sulla banchina o nel giardino c’è un uomo, che spesso legge, una volta addirittura scrive; può distrarsi dalla sua lettura, volgere le spalle al mare, o forse intravederlo, essere attratto dalla visione sfumata che se ne ha in lontananza nello squarcio della verdura.
L’uomo Tranchino vive a Siracusa, e Siracusa è un porto, un invito al mare aperto e al viaggio, ma lui, il pittore, non s’imbarcherà per girare il mondo, assomiglia al personaggio dei suoi quadri, all’uomo dormiente dalla confortevole veste da camera che indica la strada e la macchina da corsa: in sogno. Il pittore della Mastra Rua è l’uomo che legge racconti di viaggi interiori o avventurosi come nei quadri, mentre i luoghi di vera elezione per lui sono la passeggiata alla marina o il giardino da cui si intravede il mare. Se sale sulla macchina è per catturare paesaggi. La sua pittura nega il viaggio reale, preferendo coglierne gli emblemi e goderseli sensualmente nella prigionia di forme e colori inventati nella stanza dell’atelier.
Il mondo si rivela nel quadro: a te spettatore, che lo guardi quando è compiuto in una essenza di rapporti che avvolgono un mistero o nascondono paura, meraviglia, nostalgia… e non sai più se appartengono all’artista o a te. Il pittore dice che il suo quadro, ogni quadro suo, è una navigazione: forse in questo senso assomiglia al libro, che lo si scriva o legga, in quanto la scoperta viene fatta nella durata Quando si avvicina al cavalletto, Tranchino non sa a priori cosa sarà il suo quadro, lo scopre e lo inventa a poco a poco, come è appunto un viaggio.
Ferdinando SCIANNA
un mondo “come potrebbe essere
Raramente, penso, abbiamo immediatamente, nei confronti delle opere di un artista, pensieri critici articolati. A meno di non essere critici di mestiere. Di solito reagiamo emotivamente, con godimento, con indifferenza, o magari con irritazione. Ancora meno ci mettiamo a razionalizzare se si tratta di opere di un artista amico.
Gaetano Tranchino è uno straordinario artista ed è mio grande amico. Ma lui vive a Siracusa, io a Milano. Vedo i suoi quadri nel suo studio, quando lo vado a trovare, e magari, tra una visita e l’altra, passano mesi. Vedere i quadri nuovi è per me un rituale dell’amicizia, si carica di emozioni, di sentimenti che costituiscono una parte importante della nostra complicità di persone che si conoscono da molto tempo. Non mi preoccupo certo, in quelle occasioni, di definire un pensiero critico sulle opere. Questo si va mettendo a fuoco dopo, a poco a poco, magari per sollecitazioni di letture che con quei quadri apparentemente non c’entrano, nel corso di successive conversazioni sui nostri diversi lavori, o su cose che hanno a che fare con la vita più che con il dipingere e il fotografare.
Di Giorgio De Chirico, che ammirava molto, Renè Magritte ha scritto che la sua rivoluzione consiste nel fatto che: “rompendo con tutto quanto si era fatto fino ad allora, si mise a dipingere il mondo non com’è, né come lui lo vedeva, ma come potrebbe essere, dovrebbe essere”. Mi pare un lucido, straordinario complimento. Quando ho letto questo giudizio subito mi è sembrato che la frase perfettamente corrispondesse al sentimento, più che ad un pensiero criticamente elaborato, che mi abita quando sono di fronte ai dipinti di Gaetano Tranchino.
Anche Tranchino crea immagini di un mondo “come potrebbe essere, come dovrebbe essere”.
Quello che sto cercando di dire, di capire innanzitutto io stesso, è che non mi sembra bastino per i dipinti di Tranchino, forse addirittura non servono, i criteri della fantasia, del sogno, della visionarietà. Il sentimento fortissimo che ogni volta si rinnova, e specialmente con le opere di questa fase più recente del suo lavoro, è quello di trovarmi di fronte a immagini di perentoria verità, che mettono in scena un mondo tanto più reale quanto meno esse sono realistiche. Un mondo, appunto, non sognato, non frutto di fantasia, di visione dell’artista, come si suole dire. Un mondo, al contrario, che impone il suo come dovrebbe essere, con l’esistenza che potrebbe avere.
E’ radicatissimo Tranchino nella sua isola, addirittura in Ortigia, isola dell’isola. Ma nonostante ciò, forse anzi proprio in virtù di questo quasi nevrotico radicamento, il mondo che ci racconta è universale. Del resto, il suo dialogo culturale non è specialmente siciliano.
Certo, se uno conosce Gaetano può con evidenza trovare in queste immagini tanti elementi della sua vicenda personale, del suo essere così anticamente siracusano e siracusanamente antico.
Le automobili, il mare tempestosissimo e dolce, familiare persino, che a volte circonda penisole, altre volte tavoli, armadi. Questi armadi sono muniti di specchi che spesso riflettono immagini diverse da quelle che hanno di fronte. Pezzi di archeologia, colonne, navi immense dalle quali fioriscono fumi di pietra, giardini, in mezzo ai quali ci sono uomini che leggono, che scrivono, sembrano ascoltare musica, cagnolini, figurine di fanciulle che appaiono e scompaiono tra le palme.
Frammenti di esperienze reali, certo, che appartengono alla memoria di Tranchino, ma che si ha come l’impressione che siano usciti dalla coscienza del pittore per andarsene per conto loro a capricciosamente comporre un mondo nuovo, autonomo, diverso, con un suo proprio tempo e spazio, di sconosciuta geografia, che ha forme e colori mai visti e obbedisce ad altre leggi della statica e della tettonica. Questo mondo, questo universo impone al pittore – che è il solo, si direbbe, ad avere il diritto di vederlo, di viverci dentro – di essere rappresentato, di affermare la propria realtà attraverso il mistero della pittura, in modo che anche noi possiamo conoscerne l’esistenza, approfittare della sua bellezza necessaria.
Una volta incontrato questo universo esso si rivela inconfondibile. Inequivocabilmente, riconosceremo per sempre queste immagini come dipinti di Gaetano Tranchino. Forse è questo il mistero della pittura, dello stile, parole difficili, spesso ambigue, che qui sembrano trovare la propria evidenza.
Un universo poetico preciso che attraverso un artista trova la forma esatta per esistere, per entrare a fare parte della nostra vita.
Vincenzo CONSOLO
Presentazione Catalogo Galleria Trentadue
Milano maggio 1984
Crono, il figlio di Gea e Urano, trascende Clio, la figlia di Mnemosine e Zeus. Vince domina la Storia e il Tempo, gigantesco e trionfante, eterno e ironico sovrasta le già splendide forme, i resti consunti di suoni parole bronzi marmi.
D’Atene a Siracusa. Corrono infiniti fili fra le due nobili Grecie, fra le due città di storia sublime, fili aerei, come quello che stese, da Creta a Camico, in Sicania, Dedalo, e marini, dall’Egeo allo Jonio, dal Pireo ad Ortigia, sulle onde tagliate da navi di eroi e poeti. E giù giù, fino al tempo d’una storia caduta, ridotta a cartesiana, mediocre misura (la mediocrità è l’orizzonte fatale d’ogni moderna civiltà), a borghese, mercantile sostanza: d’una Atene cosmopolita, paleo-industriale, ingegneristica e militaresca, coloniale e neo-classica; d’una Siracusa provinciale, marinaresca e contadina, artigianale e turistica, floreale e novecentesca. L.Atene di Savinio-Nivasio Dolcemare e la Siracusa di Tranchino.
Sorprendenti rispondenze fra le due città, fra le piazze Omonia o Syntagma e le piazze Marconi o Archimede, fra le vie Pericle o Eolo e il Corso Umberto e il Foro Italico o la Riviera di Dioniso il Grande; sorprendenti queste due scenografie d’architetti tedeschi d’una neo-Grecia e di provinciali capi-mastri d’una neo-Siracusa Liberty, scenografie di cemento scialbato e di tufo, di ferri ritorti che incorniciano o schermano vere, nobili pietre, che nascondono, in patetici scrigni, gemme di raro valore.
Sorprendente che in questi teatri-baracconi come il Lanarà abbiano ‘agito’ le infanzie dei due pittori. Infanzie straordinarie, parallele, di due artisti, di due destini ‘sfuggiti al controllo’.
Infanzia – onda continua di rivoluzione… Rivoluzione infaticabile e mai delusa…
È questa infanzia che ignora il dio Crono, che contro la caducità della storia oppone, crea la metastoria, il ‘fantasma della storia’. E se il massimo destino delle vicende umane, se la sorte più nobile, più alta, più ‘santa’ di noi e dei nostri pensieri non fosse la storia, ma il fantasma della storia? Il Savinio adulto, loico e civico, passa però dall’oscura foresta dell’infanzia, al chiaro giardino della ragione, e analizza, definisce, storicizza i due stadi, anche quello della pittura e della scrittura. Tragedia dell’infanzia e Dico a te, Clio sono i due capitoli, i due cartoni di tutti i suoi ‘quadri’.
Tragedia: ma per Tranchino è stato idillio, e per due fortune. D’essersi trovato in una Siracusa più tenera, più sonnolente, più calda, piccolo-borghese e provinciale, senza generali consoli ingegneri commendatori e signore Triglione, in un’isola di ‘quaglie’, un’isola di ninfe di acque e filamenti di muschi, di Vergini dagli occhi sognanti su guantiere d’argento, di chiese e palazzi a onde di vele, a viticchi, di piazze a ogiva di occhio o vagina, di rue di Maestranze, di penombre di stanze dove immobili Veneri palpitano luminescenti, arcaiche inesauribili madri allattano infanti; non in una terra calda, decorticata, ma in mezzo a una lussureggiante natura di palme papiri ibiscus opunzie agrumi come dietro vetrate o negli umidi inguini delle latomie – precipita per le pareti il capelvenere, trapassa in alto la freccia degli aironi, si libra nel cobalto il canarino o il passero, trabocca il miele dal favo, s’accopisce l’operaia nel calice di zagara; e se contro l’Eretteo danza a piede nudo Isadora, qui nei meriggi senza fine, nei golfi nascosti, può emergere dalle solide acque la sirena Lighea, L’Anima può invadere, possedere per sempre fatalmente; d’aver spostato le autorità parentali – con codici d’altra parte immaginiamo di minimi articoli essenziali – Verso un avo costruttore di mobili e suonatore di violino, trasmigrante per isole di fortuna e di sogno.
Tranchino è solo un pittore, rimane fedele alla sua foresta, alla sua metastoria, al suo fantasma. Che dispiega senza sosta con cavalli bianchi in volo su scenografie barocche, giardini-Eden, isole che si cullano su ricci di spuma, di bambagia, sognanti violinisti, attese tra comò armoires tavolini poltrone, riflessioni su specchiere, orologi assopiti, voli e voci d’uccelli rappresi, silenzi senza fine… E navi, navi rosa o pistacchio di gelato o di pupo di zucchero, navi d’un primo viaggio verso approdi ignorati o d’un ritorno, navi come l’Andromeda di Nivasio.
Quanto fumo per un bastimento così piccolo! Ma era una macchina poi, o non piuttosto una creatura favolosa?
Calme partenze e ritornare grato / Delle stagioni cieli innumerabili / E te perpetuo rimutar di veli sulle magie brevi di città / Errar di venti e l’etra folgorata / sui monti grevi e quale ti sovviene / Fido indugiare dei tramonti e lenti / Viaggi delle nubi e l’esplodenti / Aurore e la tranquilla estasiata / Serenità.
Serenità che in quest’ultima stagione appare frantumata, increspata da brezze melanconiche.
E il sogno s’è rinchiuso in un ovale assediato da un buio minaccioso; i personaggi – donne, uomini, – fuori scena, hanno abbandonato sul tavolo di marmo, sulla sedia di ferro un cappello di paglia, un libro, un frutto, uno strumento – son rimasti assorti uccelli a volteggiare, incantati a specchiarsi, a dormire ripiegati in cune di luna. E i toni dei mari, dei cieli si sono incupiti qualche volta la materia s’è aggrumata, fatta sabbiosa; è sparito il giardino, la verzura, abbondano ora i marmi, scalinate che si perdono in fondali d’acque verdi, templi a colonnati contro cieli di grevi nuvole vaganti; e la nave, sostando e sostando, ha perso i soavi colori del balocco, s’è fatta rugginosa, barriera di lamiera, scoglio di basalto; e i pescatori, dentro cale artificiali, calano o tirano reti: primi o ultimi barcaioli, rassegnati Argonauti nella ricerca vana d’un vello d’oro perduto nei fondali?
È certo che l’idillio è lontano, che un inquietudine attraversa la scena. Siamo forse a una sosta, a un pensiero che aggrinza la fonte: che l’infanzia è pur sempre tragedia? ch’essa accompagna per sempre la vita, la vita solitaria dell’artista? È il saggio d’Atene, il fratello maggiore che ancora una volta interviene: In questa sosta in cui l’incanto / Muore Cedi alla serena / Pace la fronte in cui si smaga / La voce di sirena
Paolo BISCOTTINI
Il Nuotatore
Prima sequenza
Nel sogno – ma forse non sogno, ricordo..oppure è la fantasia che divaga, mentre assorto nei pensieri lascio che il tempo scorra..
Mi assopisco e il dormiveglia è intenso di luci e colori nell’afa d’agosto, quando il silenzio regna nel pomeriggio al mare…e nuoto, nuoto con vigore e con forza, fra le onde verdastre e sotto un cielo blu, che ricorda quello di Van Gogh.
E’ notte? Forse è notte, ma tutto intorno è luce e le rive mi stringono, mentre la nave oscura, ferma a terra, mi sembra una minaccia, incombe nera, fantasma che annuncia pericolo. Devo fuggire, uscire dal mare maledetto e seguire la riva, dove corre il mio cane, amico, unico amico, là dove tutto è ostile e mi precipita addosso.
Tutto incombe su di me, la memoria del passato, le vestigia degli antichi padri e poi la mia via, forse la vita, e la stessa Ortigia, l’isola nell’isola, dove spero per me rifugio. Tutto è rischio di morte ed anche il giardino amato e la casa ad esso intorno, luogo di antiche memorie…
Seconda sequenza
Il mare si allarga, mentre continuo a nuotare con vigore.
Sulla sinistra si delinea Ortigia, ancora qualche bracciata e avrò superato il vascello nero e le antiche case, luoghi di ricordi nascosti.
Il mare è sempre verde e il cielo blu, come quelli di Van Gogh.
Ma ora tutto si apre e l’orizzonte riconquistato allude ad una nuova speranza.
Terza sequenza
Terra..terra, la mia terra. La mia Ortigia. Casa, dove anche il cane mi attende, insieme alle vecchie case, agli alberi del giardino e alle vestigia degli antichi padri.
Pace riconquistata..ora il vascello può solcare il mare e navigare verso l’ignoto che io stesso ho liberato. Tutto si ricompone nel mio dormiveglia e infine riposo.
* * *
Nel 1992 presentando una mostra di Gaetano Tranchino presso la Galleria San Carlo di Milano, mi soffermavo sulla natura romantica dei suoi dipinti e sull’attitudine a narrare in senso favolistico la verità di sé.
Il tema dell’attesa, dell’addio, del luogo stesso in cui l’artista colloca ciò che affiora dalla memoria, mi sembrava suscitare domande alle quali era difficile dare delle risposte.
Il confronto fra un luogo noto e un luogo ignoto, fra ciò che è vicino e ciò che è lontano, pareva alludere al mistero dell’uomo e dell’artista.
A distanza di quasi quindici anni, mi sembra che la sua pittura sia venuta, specie nei dipinti più recenti, assumendo una valenza onirica, come si può rilevare dalla lettura del Trittico del nuotatore, opera recentissima, da porre in stretto riferimento alle fasi diverse e simultanee del sogno. Il tema dell’oscuro vascello destinato a solcare il mare solo quando il nuotatore conquisterà la riva, si presta ad un’analisi di importante rilievo psicologico.
La pittura è metafora della vita: l’uomo che solca i flutti pericolosi, novello Ulisse, trova infine la sua riva, dove ciò che il tempo ha disseminato si ricompone, mentre inizia il viaggio misterioso della nave, la parte oscura di sé in cui consiste l’ambiguità dell’esistere, da cui scaturisce la necessità stessa della poesia, intesa non solo come recherche proustiana, ma anche come viaggio nei recessi dell’animo umano.
In tal senso l’arte di Tranchino si allontana vistosamente da ogni rappresentazione del reale, ma anche da ogni sua celebrazione (nonostante esso ci appaia in tutta la sua glassata magnificenza), per avviarsi proprio nella direzione della recherche, dove i dati si confondono e si sovrappongono (che importa, del resto, che il personaggio della duchessa di Guermantes, per esempio, sia preso in parte dalla contessa Greffuhle, in parte da M.me Straus e dalla contessa de Chevigné e per il resto da dieci altre?), suscitando spazi nuovi e imprevedibili, dove al centro è comunque l’uomo, che percorrendo i tempi reinventa il mondo, lo immagina nuovamente, liberandolo sempre di più dalle costrizioni ideologiche ed anche dagli imperativi stilistici.
Tranchino canta la libertà dell’uomo, aprendone le sorti verso orizzonti sconfinati.
Esiste una storia intessuta di avvenimenti, di date, di fatti, di vita e di morte; ed esiste tutto ciò che resta di questa storia nella memoria e nella coscienza. All’artista questa memoria vibra così fortemente da farne scaturire forme per un paesaggio inedito, ove l’uomo possa ritrovare la sua identità come essere antico e nuovo, sospinto verso un futuro che non conosce, ma prefigura.
In questo senso i temi che già in qualche modo erano precedentemente presenti nella pittura di Tranchino acquistano una nuova forza e una dimensione incisiva.
Il giardino rivela la sua natura labirintica, mentre Ortigia stessa diventa il punto di partenza e di arrivo del viaggio dell’artista.
Le figure sono semplificate, ma la qualità cromatica, accesa come lo era nel passato, pare accentuarsi in nuovi e più intensi valori, che alludono ai sapori e ai profumi forti della Sicilia. E il rapporto fra la figura e lo spazio richiama un senso mitologico dell’esistenza, considerata nel suo destino di solitudine. In essa il pensiero pare immergersi, senza indugi di tipo melanconico.
E’ come se la forza narrativa assumesse una nuova intensità conoscitiva. Nella casa col giardino intorno, interno ed esterno si fondono in un’unica visione, lasciando intendere che tutto esiste nella mente, contemporaneamente, il dentro e il fuori, l’antico e il presente, l’oggi e l’ora.
Nel suo bellissimo giardino di carta Tranchino coglie con semplicità i fiori delle sue letture e del suo pensiero, da quelli più lontani a quelli più recenti, senza avvertire la necessità di datarli perché essi coesistono e convivono, come in un’aiola: fiori di ieri, di oggi, di sempre.
Certamente il tema della bellezza era e resta al centro del suo pensiero poetico, ma in esso affiora dolcemente e terribilmente la consapevolezza che “Chi la bellezza coi propri occhi vide è della morte già preda sicura”.
Riccardo BARLETTA
Nel giardino delle immagini senza storia
NORMA. Scrisse Carl Gustav Jung: «Nei miti e nelle favole come nel sogno l’anima testimonia di se stessa e gli archetipi si rivelano nella loro naturale correlazione come “il formarsi, il trasformarsi, il conservarsi eterno della eterna idea”».
CHIAVI. Per capire e spiegare la pittura di Gaetano Tranchino sono state molte. Chiave popolare folk lorica, chiave letteraria, chiave stilistica. La Sicilia, le sue favole, un gusto naïf. Le butteremo tutte a mare, e cercheremo qualche significato mediante la psicologia del profondo.
ARCHETIPO. Un personaggio mitico del tutto personale. Un nonno, o meglio il fratello di un nonno, e sua moglie. Due nonni acquisiti; cioè la terza coppia di nonni. Vivevano in un villino, allora immerso nella campagna, nel sito siracusano. Il nonno faceva il produttore di mobili, e gli attrezzi di cui si servivano i suoi falegnami costituivano la prova più tangibile di un’arte, magici ed empirici insieme. Il villino del nonno attorniato dalla natura era Eden ed Eldorado. Questo nonno, a sedici anni, era scappato da Siracusa; aveva attraversato il mare con un piroscafo, per andare a Malta a suonare il clarino. Da adulto impiantò in quest’isola un’altra fabbrica di mobili. Malta nel cuore del Mediterraneo.
GIARDINO. Il giardino del nonno era meravigliosamente pieno di alberi, di fiori e di balaustre. Vi si poteva stare e sentirsi al centro del mondo. Il nonno e sua moglie vi troneggiavano come Adamo ed Eva: una condizione piena, perfetta, forse senza peccato. Il nonno apponeva cartellini gialli, col rispettivo nome, alle varie piante: e sembrava il Creatore, nel sesto giorno della creazione. Tra l’altro, il giardino abbondava di palme, alcune rarissime.
L’ETERNA IDEA. Quella di cui parla Jung – e che è conservata da miti, favole e dal sogno – è il motore delle immaginazioni di Tranchino pittore. I suoi dipinti, dal di fuori, non mostrano una vera e propria evoluzione; infatti iterano il desiderio – sempre lo stesso – di ricongiungersi alla primitiva isola felice dell’anima. È il bisogno del ritorno assoluto a una terra, madre della vita e dei sentimenti. È la tensione verso il tempo senza tempo dell’infanzia. Il conservarsi eterno della eterna idea si esprime in una creatività che ha forma circolare. Però non si ripete.
IL PADRE SPIRITUALE. È il Doganiere Rousseau, non solo attraverso amore e studio, ma soprattutto per una analogia strutturale. Tranchino, infatti, alla pari del francese, ha posto come perno su cui gira il suo fantasticare il mito familiare. L’avo, l’avo e la moglie, la moglie da sola, il gruppo familiare con l’avo; varianti e travestimenti, spesso simbolici. Ma è sempre un diuturno colloquio con questo Adamo parentale, che ritorna come un fantasma dalle orbite perse nel nulla, che ritraduce una storia metastorica e infinita. Vari sono i parallelismi tra l’iconografia di Rousseau e quella di Tranchino: il mito parentale, il suonatore, la simbiosi tra figura e cavallo, il piroscafo.
Parallelismi non di pura trascrizione formale, bensì di analogo contenuto di situazione interiore.
Analogia non identità con Rousseau, né prosecuzione.
I NOMECLATORI. Eccoli classificare Tranchino tra i Naïf. La distinzione è superficiale. Certamente c’è un rapporto spirituale con Rousseau; talvolta esso si fa stilistico. Tuttavia, come ebbe a notare, fin dalla prima mostra dell’artista, Franco Russoli, vi sono agganci con la ritrattistica artigiana dell’Ottocento provinciale e richiami all’arte popolare. Vorrei aggiungere che il colore è totalmente inventato rispetto al Doganiere. C’è una mano che si richiama alla scuola dei primitivi trecentisti. Appare un controllo di forma e di colore inesistente nei Naïf correnti.
Il recupero del mito, e il fantasticare che si incarna in immagini esatte, rientrano in una cosciente azione di recupero di una cultura mediterranea e popolare, di origine probabilmente neolitica, anche se poi incrostata di strati più recenti. Certamente, in questa operazione artistica, ciò che prevale è il livello psichico, non quello stilistico (quest’ultimo è un puro medium).
LA STORIA METASTORICA. Trascriviamo la formula. La visione metafisica sta alla realtà, come la visione metastorica sta all’evento avvenuto. Tranchino, per preparazione e per cultura, non è né un “ingenuo”, né un visionario, né un fantastico, né un metafisico, né un surreale. In parole povere è un “metastorico”; cioè egli fissa in immagini un’epica dell’anima propria del suo grado originario e infantile. Essa si ha quando la totalità della psiche (dell’uomo primitivo o del fanciullo civilizzato) si articola in un sistema di archetipi profondi, che sono normativa al comportamento e alla sensibilità.
La produzione di tali contenuti metastorici avviene mediante l’assimilazione, da parte del soggetto, di figure generate dal raccontare o dal fantasticare.
Tali figure – inesistenti come eventi reali – esistenti come eventi sulla psiche – producono significati di verità e nutrono il crescere verso una fase matura.
IL VIOLINISTA. Tra le altre, in Tranchino, tipica è la figura del violinista, che appare in disegni colorati ed olii. Personaggio solipsistico, egli rifugge dalla realtà storica, e si chiude nella “metastoria”.
Quest’ultima consiste nella scelta assurda del voler suonare a tutti i costi, accada ciò che accada. Passa un vapore, o un naviglio a vela o un treno sbuffante …No.
Il violinista non si sveglierà dal suo torpore, non vuol aprire gli occhi alla storia, il suo mito interiore è la sua unica realtà.
Magari affonderà nelle acque perigliose, brandendo il suo strumento, forse per non essere voluto salire sul mostruoso battello dalle grandi ciminiere. Questa figura di violinista, non dimentichiamolo, è metaforica di un certo costume meridionale che consiste nel rifugiarsi nel mondo dei propri sogni, come scelta ontologica e antropologica.
LA MADRE ETERNA. L’iconologo scorge nella simbolica di Tranchino, resa con un colore vivido e numinoso, l’idea della madre, iterata, proteiforme, assoluta.
Amante della forza vegetativa della terra, quasi per concetto carnale, il pittore siciliano la riproduce in più immagini: il mare, il bosco, la valle; e per traslato nel corpo della donna, o dell’animale marino, o nella casa e nella città. La rotondità delle forme, il calore denso e corporeo del colore, ne sono un corredo sensoriale indispensabile, quasi per raggiungere una temperatura biologica come il feto nel grembo materno.
Spesso i rivi hanno significante, scorrendo arcuati per la terra, di materie fecondanti, mentre gli animali possono assumere rilevanze di aggressione di virilità.
Il linguaggio, comunque, è sommesso, persuasivo, pieno di magia e di calma.
Non scordiamocene: la madre sta all’inizio e alla fine del viaggio dell’anima.
Paolo NIFOSI’
Nel regno dell’immaginario
Una riflessione di Emanuele Navarro della Miraglia su Stendhal, citata da Leonardo Sciascia, può introdurre l’opera di Gaetano Tranchino, cambiando il verbo dall’imperfetto al presente: “Pretende di agire secondo i dettami della ragione, ma è perennemente dominato dalla fantasia e fa ogni cosa per entusiasmo”. A guardare le opere di Tranchino, lui amico di Sciascia e stendhaliano come Sciascia, penso che la fantasia sia la protagonista, una fantasia con forti radici nella realtà della sua vita, nei luoghi in cui sempre ha vissuto, negli incontri e nelle letture che ha fatto, con un rigore e con scelte formali che conosco in pochi artisti e se dovessero chiedermi chi sono i primi dieci pittori siciliani del secondo Novecento Tranchino farebbe parte dell’elenco.
Pittura visionaria la sua, saviniana per assonanze, fatta di grande sintesi e con una vivacità cromatica che trae spunto dall’espressionismo per organizzarla strutturalmente in credibili spazi tra la fantasia e la realtà della sua terra: basti pensare alle marine col porto di Siracusa e le citazioni archeologiche, le palme, la campagna, le strade urbane. Conta poco la verosimiglianza, conta l’archetipo, tempio o nave che sia, palma o automobile, mare o palazzo, forme ridotte a strutture prismatiche o a volumi gonfi come nuvole. C’è la Metafisica di mezzo, ma anche il magmatico colore bonnardiano e l’umbratile e profondo colore della Brüke; Parigi e Monaco s’incontrano a Ortigia, in una Sicilia pensata e tante volte sognata, “vista” e dipinta con una tale convinzione, con una tale pregnanza da renderla vera e insopprimibile a chi ritornerà a vederla. Terra chiusa, adatta ad alimentare l’immaginazione, ma anche terra di approdo e di partenze, certe volte definitive, certe volte per ritornare. Tutto questo si trova nelle tele di Tranchino. In Sicilia si vive di fantasmi, di immaginario, tali e tante sono le sedimentazioni, tali le culture che ne hanno modellato il paesaggio. Le simmetrie e i volumi più rigorosi si compenetrano con le spirali, le concavità e le convessità barocche e liberty, gli intensi gialli dei campi di luglio si saldano con i blu novembrini del mare, i fuxia delle buganvillee con i verdi degli aranci. Non c’è una presa diretta, ma un estrarre le essenze vissute esperite, giorno dopo giorno, anno dopo anno, per ricondurle alla libertà dell’immaginazione, alla fantasia, appunto, al gioco del magrittiano nonsenso, e tutto questo all’insegna della consapevolezza intellettuale, di quella necessaria letteratura che consente di vivere in questo luogo, con l’incoscienza di camminare sulle acque o di muoversi lungo le strade contemporanee con lo stupore di un bambino.
Di fronte a questo procedere c’è un discrimine che permette a Tranchino di poter attraversare questo territorio, il valore della sua idea del mondo, e la qualità della pittura, due punti di forza che ne rivelano l’autenticità e le possibilità simboliche.
Marcello PANASCIA
Sognate fabule
“Chi mostrerebbe un fanciullo così com’è?”
R.M. RILKE
Elegie duinesi
Per Schiller i greci erano la stirpe felice guidata dagli dei con il lieve freno della gioia. Ma noi non crediamo più alle favole, né indulgiamo alle semplificazioni winchelmanniane della nobile semplicità e dell’armonia serena. Pensiamo, piuttosto, che l’uomo greco conobbe profondamente il dolore e il tragico sentimento della caducità. Tutti i suoi eroi il Poeta chiamò <uomini di un giorno> e paragonò le generazioni degli uomini alle generazioni delle foglie. Il sorriso con cui Pallade Atena conferiva l’iniziazione all’ateniese nascente, significava la misura della ragione e il sovrano equilibrio del canone. Il pensiero greco equilibrò lo sguardo esteriore sul mondo con uno sguardo interiore altrettanto intenso, tant’è che un valore fermo dell’uomo ellenico è l’intuizione contemplativa simboleggiata dallo sguardo azzurro di Pallade Atena. Tale intuizione intesa come visione immediata della realtà e a un tempo capace di penetrare l’involucro materiale delle cose per coglierne la sostanza invisibile fu sovrana fra i greci, i quali la chiamarono “theoria” e di essa riempirono il mondo. Il pensiero greco considerò la luce -filtrata dal fuoco primigenio- il primo elemento vitale nella sfera dell’esistere: vivere e vedere la luce sono già sinonimi in Omero.
“E certo l’universo era ancora vivo e il mondo pieno di dei se vi fu chi prese a ragionare con Dioniso e le Muse nel restaurato Olimpo delle Apparenze”.
Una primitività ideale -una lust zu fabulieren– presiede all’opus pittorico di Gaetano Tranchino, artista nativo della greca millenaria Siracusa: la dolce città aretusea che Vincenzo Consolo amava di un amore profondo e viscerale: <la città che continuamente si ritrae, scivola nel passato, sfuma nel ricordo, che dunque sempre ruota attorno alla poesia>. Ebbro di quel piacere mero che danno le pure atmosfere, le analogie di luce e d’ombra, egli è proteso a rinvenire nel quotidiano la presenza di divinità inaudite, a svelare la straniante alterità di un mondo colpito dal mistero, ricreato dopo un dilivio immaginale. Nelle sue caleidoscopiche tele -cariche di simboli ed emblemi: impensate reliquie del mondo-, tutto dorme nell’immobilità e nel silenzio; intanto che tra i laghi del cielo e le ampie distese dei mari, isole e penisole verdi passano lentamente davanti alla nave che galleggia immobile sull’onda di una infinita tenerezza, di un colore mai veduto, volta a volta cangiante: mentre su in alto, lunghe teorie di uccelli sublimi volano cantando. Ormeggiato ai crocevia del ceruleo mare, al dolce sciacquio delle acque contro la marmorea banchina, il battello ha nostalgia di paesi lontani, di terre sconosciute e geografie remote. Così il poeta nauta-battello ebbro- diuturnamente naviga, solca ogni mare, scopre terre che da lontano appaiono belle e misteriose. Poi traversando oceaniche distese, eterno Odisseo, naufrago scampa a nuoto ai flutti perigliosi e stremato approda alla sua Itaca -alla sua Ortigia, isola dell’isola-, senza che mai si sia staccato dai suoi nativi lidi.
Artefice di sensi e d’intelletto, pur folgorato dalla sua enigmatica vaghezza del reale, Tranchino attinge l’archetipo: il suo sguardo orfico sa cogliere la sostanza immateriale -invisibile- delle cose che mette in scena con plastico dolcissimo furore; ma benché profondo e intenso sia il mundus imaginalis cui s’ispira, egli è per sua indole un loico -un ventriloquo della mente logica e dell’immaginazione: narra storie di un tempo mentalmente possibile e insieme irreale: allude ad eventi accaduti tra due secoli, o che accadranno tre generazioni fa. E’ infatti poeta di un verosimile adynaton, e non in qualche modo ma esattamente in questo. Non per niente egli è discepolo di Ebdòmero e appassionato cultore di Borges con cui lo legano mitografiche agnizioni. E non a caso il suo universo cognitivo ed espressivo fa pensare a Conrad, non tanto per l’ossessiva presenza nei suoi quadri <del mare e delle navi che sembrano emergere dal fondo marino… dei marinai confittti nell’immemore stupore> come Sciascia acutamente annota. <E’ piuttosto, a far pensare a Conrad, la presenza di un destino, del destino> poi conclude il dotto scrittore stendhaliano. Ed è con la curiosità, la razionalità ironicamente attenta di un filosofo dei Lumi che l’ulisside Tranchino naviga nel Tempo -vegliardo pensosamente assiso tra una falce e una clessidra- verso i suoi liberi orizzonti sconfinati.
Da pittore classico, indifferente alle tendenze e al richiamo delle mode, in ragione di un’epocale <antimoderna> modernità, nell’esperienza del vissuto -nel suo Erlebnis, come nel suo fare artistico, Tranchino non ha mai sacrificato il primato di un <imagistico> vedere: come chi ha cittadinanza -privilegio e rango- in un Altrove atemporale dell’arte, come colui che abita un paradeisos di prodigiosa luce creatosi da sé. Ma fuor d’ogni esaltazione visionaria, egli è lì anche a ricreare -a restituire- la sostanza metafisica dei sogni. Il suo ciclo pittorico configura un romantico baedeker di paesaggi esotici popolati da enigmatiche figure: architetture immaginose e giardini tracciati da labirintici viali, con omini che solipsisticamente suonano, leggono o scrivono; mari di verde cobalto smaltati, cieli di un blu inimitabile -castamente rubato a Van Gogh. E navi, <navi rosa o pistacchio di gelato di pupo di zucchero>; dissepolti splendori di antiche civiltà -rovine di templi e colonnati diruti, e rue di Maestranze; e quiete di porti solenni e angiporti segreti; interni ed esterni di domestici spazi con armadi forniti di specchi incantati. Accesa ogni cosa da un magmatico colore bonnardiano, dalla fosforescenza di un delirio diurno che sa di memoria e metafisica visione. Con tale armamentario immaginale, degno della fantasia visionaria di un Lewis Caroll, che s’estende al di là del sensoriale, egli viaggia alla ricerca di stagioni ormai remote a ritrovare il tempo di un’infanzia sognante e fabulosa. E la favola si stende come un labirinto proliferante, un edificio capace di riprodursi, di progettare nuovi aditi ed esiti, cui sarebbe vano cercare un inizio ed una conclusione, punti privilegiati e scoperte nodali. La singolarità di questo immaginifico procedere narrante sta nella sua distanza sia dal sogno che dal monologo interiore: essò è infatti di una lucidità minuta, di un’esattezza da grande accademia che non abbaglia chi guarda, ma lo seduce ad uno spettacolo d’illusionistici diorami che sannò di beata allucinazione, di erudizione e di sogno, di vaneggiante angoscia e frigida invenzione retorica. Un epos visuale di metafore sgargianti e silenziose -tempio o nave che siano, palma o automobile, mare o palazzo, aereo o poltrona: forme fenomeniche consuete, idoleggiate entro geometrizzanti strutture prismatiche, disposte con disordinato rigore, con estro artificiale e innaturalezza sapiente, anche. In tal senso i motivi e i temi che in qualche modo figuravano già nella pittura di Tranchino, acquistano nella più recente produzione una nuova forza e una cifra assai incisiva, una più icastica intensità narrativa, una più ricca complessità sinfonica: sinestesie di splendide cromie che salgono al cervello come una bevanda inebriante. Abituati ad entrare nelle sue favole figurative, tuttavia non siamo abbastanza educati a lasciarci guidare dal suo dèmone mimetico che restituisce l’unità panica agli esseri e alle cose: i suoi stilemi, i suoi morfemi classici e i suoi mitologemi configurano un’unica ricchissima variazione sul tema, quasi stanze di un poema visivo. Ed anche si svela nei suoi quadri un’antichissima idea di teatro: le sue <scenografie> che paiono fatte con i ritagli di cartone riproducono la teatralità dello sdoppiamento, sanzionano l’ironia della maschera, e finanche la <meccanicità> del manichino. Così, assieme al gusto esasperato d’una ritualità cerimoniale, si giustifica il bisogno dell’iperbole, del paradosso: che suscitando incantamento e stupore richiede allo spettatore una <intenzionale sospensione dell’incredulità> laddove la <finzione> assume le stesse sembianze del vero. Il dizionario dei segni diviene allora un teatro, un magazzino di scenari da costruire, mentre l’immaginazione fonde in se stessa natura e antinatura, mimesi e allegoria, realismo e fittizio splendore scenografico. Come la letteratura anche l’arte è un adynaton: una cosa impossibile. Laddove il verosimile è garantito da un predicato universale, secondo l’intenzione estetica di rappresentare la favola bella del mondo. Un’allegoria è nascosta in ogni figura del mondo e giova, secondo la sentenza di san Gregorio <lo intendimento delle allegorie ridurre ad esercizio di moralitade>. Chi ha in sè tabe di letteratura intende.
L’ora è ormai matura per rileggere l’opera intera di Gaetano Tranchino sotto rinnovata luce: tra i pittori siciliani più significativi del secondo Novecento, egli è un artista eclettico. La sua pittura -saviniana per assonanza, e dechirichiana per sotterranea agnizione, ha una spiccatissima e chiara identità per unità tematica e stilistica. E vale qui in chiusa richiamare una nota -alquanto arguta- di Leonardo Sciascia, che il pittore siracusano, stendhaliano anch’egli, teneva in conto di amico e di sodale: <Tranchino, stendhalianamente e saviniamente, non lavora, si diletta: dipinge cioè con diletto, con piacere, come in una prolungata vacanza… E non che il dilettarsi escluda i “latinucci”, la ricerca, l’inquietudine, il travaglio, il guardarsi dentro a volte con sgomento… ma in una sfera sempre di divertimento, di gioco esistenziale>. La pura immaginazione del gioco -che fu della sapienza greca, provenendo da un passato ancestrale, ciascuno la reca in sé come rivale del dolore. E’ il gioco ritrovato con la sua primordiale immagine mitica, recuperata solo in immagini di sogno. L’immaginario popolare quando è analfabeta, quando è fanciullo, fa di tutte le cose un gioco razionale, chiamandole <dei>. Per il popolo greco fanciullo e analfabeta il mondo era poeticamente un gioco divino. E il poeta dipintore Tranchino, anch’egli pàis pàizon -fanciullo che gioca-, di quel gioco ancestrale è anacronisticamente simbolo. Wer zeigt ein Kind, so wie es steht? Chi mostrerebbe un fanciullo così com’è? chiedeva a se stesso e al mondo Rilke nelle sue Elegie duinesi.
Assai imperfetto è il colloquio di Gaetano Tranchino con i contemporanei, già che la cerimonialità della pittura è per lui la forma della sua socialità. Auden ha parlato della qualità epifanica dei nomi propri e ha negato che possa avere capacità di intendere e scrivere poesia o creare poetiche immagini chi non sappia gustare, veramente e violentemente, il catalogo delle navi stilato da Omero. Il borgesiano Tranchino, con le sue dipinte navi di monotona nomeclatura visuale e rituale, ce ne dà insegnamento ideale: esemplarmente.
Aidan DUNNE
REVIEW OF THE PLACE OF MEMORY BY GAETANO TRANCHINO AT RUA/RED IN TALLAGHT
(The Irish Times, May 5, 2010)
Gaetano Tranchino’s paintings in The Place of Memory at RUA Red Gallery in Tallaght, have a dreamy, magical quality to them. They are pictorial fables, opening up a narrative space that is warm and nostalgic without being at all overly sweet. There is a distinctly Mediterranean feeling to the world they evoke, which is hardly surprising given that Tranchino is from Syracuse on the south-eastern coast of Sicily, a place steeped in classical history.
In his work it’s a beautiful realm. Recurrent motifs include the lush, well tended garden, the comfortable, accommodating house, remnants of antiquity in the form of stone carvings or pillars, the road and the gate, the sea and the land. All of these elements frame accounts of arrivals and departures, via bicycle, car and sailing boat or liner. Our view of events is usually oblique and fragmentary: we glimpse a bicycle rounding a corner, the hind quarters of a dog, its tail wagging, a car making its way through the night, a ship pulling away from the dock. A man stands, hands in pockets, looking into the evening light, as though awaiting someone.
The curvilinear shapes suggest travel. Most of what we see, including ships and cars, has a retrospective look. The work invites comparison with that of Simon English, who seems to share many of Tranchino’s concerns. But while English likes drastically toned down colours and modulated shades of grey, Tranchino embraces colour with all the verve of David Hockney.
He uses intense yellows, pinks, reds, greens and blues in richly textured, jewel-like masses, often accentuated by strong tonal contrasts. If he wasn’t such a good painter it could all go horribly wrong, but he is actually a fine, sensitive painter, and the paintings are not only attractive but capable of withstanding sustained attention: they’d be good to live with, in other words. Tranchino’s place of memory is tinged with the sadness of loss, but as formulated, it’s an almost pleasurable sadness.
Pat BORAN
THE PLACE OF MEMORY
All true art is a kind of haunting, first for the artist, then for its wider audience. Like the writer who returns to the empty page, the painter who faces the blank canvas, day after day and year after year, inevitably finds that the process of filling that space—or of carefully brushing away the obscuring dust, as might be more appropriate description, given the archaeologically rich Sicilian landscape—reveals images that echo and amplify each other across great stretches of time.
Gaetano Tranchino’s paintings, though they appear to record or replay specific personal moments and events from the past cannot be called nostalgic or even merely personal, for the moments they describe—the recent departure of a girl, or man, or dog, the arrival of yet another smoke-scarfed ship into port—may be said to be as old as life on the Mediterranean island itself. The artist who goes after personal emotions, it would seem, is soon confronted with eternal questions and truths.
For Tranchino, unlike many artists of his generation, the haunting at the heart of his work is connected with the persistence of love, of affection, of mystery and of memory itself. In this sense, and on that often deeply troubled island, his work is celebratory, poetic and ultimately life affirming. The vibrant colours and sensuous forms, the inviting perspective and humanizing presences of his trade-mark figures (the reader, the thinker, the dog-walker, the dreamer) all suggest an enviable and all-too-rare contentment.
Though he might laugh at the notion, there is in his work if not quite a religious impulse then certainly a ‘sacredizing’ one, an impulse which makes something special and numinous of an old gateway, of the palm tree leaning over it, of a half-eroded Doric column on a hillside or the tree-lined pier which reaches out to protect an approaching ship.
For a painter who is so often drawn to modes of travel (1950s automobiles, almost comically primitive aeroplanes, etc), Tranchino’s work itself might be said to be a kind of time travel. The hillsides of south-eastern Sicily, dotted with Greek, Roman and Baroque ruins make almost impossible a simple chronological reading of the landscape. Rather than ask the question ‘Who has been here?’ it might be simpler to ask ‘Who has not?’
To paint in Sicily, then, is to be aware of the fleeting nature of time, the rise and fall of so many empires, and, paradoxically, of the enduring power of art to place a single gesture or brushstroke before the eyes of generations. To paint in Sicily is to work with a pallet of colours few northern Europeans may wield with the same casual confidence, or the same mediated feeling.
At once haunting and life affirming, Gaetano Tranchino’s paintings are also undoubtedly beautiful. One is put in mind of Sicily’s most famous modern writer, the late Leonardo Sciascia (a close friend, as it happens), who in a well-known short story* has one of his characters praise the Sicilian landscape for “a beauty so obvious that it would dazzle even an idiot”. The same can be said with confidence of Tranchino’s work which makes even those who have never been to his homeland wish to go there again.
*from the short story ‘The Wine-Dark Sea’